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Edgar Allan Poe e i suoi viaggi immaginari.

Genio sregolato, dotato di una straordinaria immaginazione creatrice che "trascende la facoltà media di un’intelligenza pratica", Edgar Allan Poe è certamente uno dei più grandi e misteriosi scrittori americani. Poeta, raffinato autore di racconti brevi, considerati veri e propri capolavori, fu maestro di gusto estetico e di un'arte in cui immaginazione e razionalità del metodo creativo si compenetravano perfettamente. Ramingo, in difficoltà finanziarie, spesso ubriaco o stordito dall'uso di oppio e hashish, irriverente, non conformistico, snob, frequentatore di bettole, gentleman del Sud, Poe fu l'archetipo di tante figure del Decadentismo europeo. In lui Baudelaire vide se stesso; Mallarmè ne creò l'immagine di autore di una poesia pura che "che non descrive la realtà, ma la dissolve nel sogno o in immagini vaghe, che ne suggeriscono tuttavia l’essenza più profonda" possibile di infiniti significati.
Nell’America afflitta da povertà e schiavitù, Poe introdusse il genere gotico con le sue immagini in bianco e nero, le esplorazioni della morte, la vita abietta degli uomini con le loro ambizioni e perversioni, l'alienazione, gli incubi, i fantasmi, e i paesaggi infestati. 

Nato a Boston nel 1809, Poe, riconosciuto anche come precursore della letteratura poliziesca della suspense, fu una figura chiave e controversa del Rinascimento americano del XIX secolo e aprì la strada alla letteratura moderna. Una letteratura che come dimostrano i testi raccolti in Viaggi immaginari (Edizioni Gargoyle) cerca nelle teorie scientifiche le risposte negate dalle religioni.  
Di seguito un estratto da "Il colloquio tra Monos e Una" in cui si legge "l’individualismo del poeta, essere unico ed eccezionale, che si distacca con disprezzo dalla massa, dalla democrazia plumbea ed informe dei moderni borghesi" (cit. Costanza Melani: L’inevitabile passage francese. L’incontro letterario tra Poe e Baudelaire)





Monos: Innanzitutto, Una mia, una parola sulla condizione umana in quell'epoca. Ricorderai che uno o due saggi tra i nostri antenati – saggi nei fatti e anche se non tali nella stima del mondo – avevano azzardato il dubbio circa la proprietà del termine «miglioramento» applicato al progresso della nostra civiltà. Ci sono stati periodi, in ciascuno dei cinque o sei secoli immediatamente precedenti la nostra dissoluzione, nei quali insorse qualche vigoroso intelletto per battersi coraggiosamente a favore di quei princìpi che ora appaiono verità assolutamente ovvie alle nostre mentalità non più condizionate… princìpi che avrebbero dovuto convincere la nostra razza a sottomettersi alle leggi della natura piuttosto che tentare di dominarla. A lunghi intervalli talune apparvero menti superiori che consideravano ogni progresso tecnologico come un regresso ai fini della vera utilità. Occasionalmente l'intuizione poetica – quella forma di intelligenza che consideriamo ora più elevata di tutte, – in quanto quelle verità, che sono per noi della massima duratura importanza, possono essere comprese soltanto con questa analogia che parla in termini adatti alla sola immaginazione e non ha peso per la ragione non illuminata – occasionalmente tale intuizione poetica fece un passo avanti nell'evoluzione dell'idea vaga del filosofico e trovò nella parabola mistica che parla dell'albero della conoscenza e del suo frutto proibito che reca la morte, la precisa allusione al fatto che la conoscenza non poteva essere raggiunta dall'uomo nella condizione infantile in cui era la sua anima. Questi uomini, i poeti, vivendo e morendo in mezzo al disprezzo degli «utilitaristi» – dei rozzi pedanti che si arrogavano un titolo che solo i disprezzati avrebbero meritato -, proprio questi uomini, i poeti, meditarono con rimpianto ma con saggezza, sui tempi andati quando i nostri bisogni non erano più semplici di quanto intense fossero le nostre gioie, tempi nei quali gioia era una parola sconosciuta, tanto era solenne ma dimessa la felicità – santi, augusti, felici tempi, quando i fiumi azzurri scorrevano senza argini, tra colline non scavate, entro sconfinate foreste primeve, solitarie, odorose, inesplorate.
Eppure queste nobili eccezioni alla generale ignoranza non servirono ad altro, combattendola, che a rinforzarla. Ahimè! 
Eravamo caduti nel più infausto tra tutti gli infausti nostri giorni! Il grande «movimento» – era questo il termine del gergo in uso -avanzava: una morbosa confusione morale e fisica. L'Arte – le Arti – raggiunsero valori supremi, e, una volta salite sul trono, strinsero catene intorno all'intelletto che le aveva portate al potere. L'uomo, che non poteva ignorare la grandezza della Natura, si tuffò in una sorta di infantile esultanza per avere acquisito un crescente predominio sui suoi elementi. Perfino quando volle nella sua fantasia avvicinare Dio, cadde preda di una infantile stupidità. Come poteva prevedersi fin dall'origine del suo disordine mentale, si ammalò di sistemi e di astrazioni, si avvolse sempre più in genericità. Tra le altre idee strane guadagnò terreno quella dell'uguaglianza universale; contro l'analogia e Dio – a dispetto della possente voce ammonitrice delle leggi della gradazione che così visibilmente permea tutte le cose in Terra ed in Cielo – furono fatti insensati tentativi per attuare una Democrazia prevalente su tutto. Anche questo male germogliò dal male principale: la conoscenza. L'uomo non poteva conoscere e soccombere. Nel frattempo sorsero in gran numero immense città fumose; le verdi foglie caddero per il soffio bruciante delle fornaci. La bella faccia della Natura fu deformata come per la devastazione di una repellente malattia. Medita, mia dolce Una, perfino il nostro addormentato senso del forzato, dell‟eccessivo, avrebbe potuto fermarci a quel punto. Ora ci accorgiamo che avevamo provocato la nostra distruzione con il pervertimento del gusto, o più ancora nel cieco abbandono della sua cultura nelle scuole. In realtà in una così grave crisi solo il gusto – cioè la facoltà di tenere una posizione intermedia tra il puro intelletto e il senso morale, che non potrebbe mai essere impunemente trascurato -, il gusto solo, ripeto, era ciò che poteva riportarci gradualmente alla Bellezza, alla Natura, alla Vita. Rimpianto per il puro spirito contemplativo, per la grandiosa intuizione di Platone! Rimpianto per la μονσιϰή che egli giustamente riteneva una educazione del tutto sufficiente per l'anima! Rimpianto per lui e per questa! – perché entrambi erano disperatamente necessari quando vennero entrambi completamente dimenticati e disprezzati.
Pascal, un filosofo che noi due amiamo, ha detto – e quanto è vero! – «que tout notre raisonnement se réduit à céder au sentiment»; ed è possibile che, se il tempo lo avesse consentito, il sentimento del naturale avrebbe ripreso il suo antico ascendente sulla fredda razionalità matematica delle accademie. Ma questo non si è verificato. Influenzata dalla intemperanza di una prematura conoscenza, la vecchiezza del mondo crebbe. Questo la massa degli uomini non vide, oppure, vivendo con cupidigia ma senza felicità, mostrò di non vedere. Quanto a me, al contrario, le cronache del mondo mi avevano insegnato che le più grandi rovine sono il prezzo della più raffinata civiltà. Avevo avuto il presagio del nostro Destino, dal paragone con la semplice, paziente Cina, con l'Assiria culla dell'architettura, con l'Egitto astrologo, con la Nubia, più scaltra degli altri, turbolenta madre di tutte le Arti. Nella storia di queste regioni trovai una illuminazione sul futuro. Le singole artificiosità di queste ultime tre erano malanni locali della terra e alla loro caduta abbiamo visto applicare rimedi locali; ma per l'infetto mondo nella sua globalità non prevedevo rigenerazione se non attraverso la morte. Perché l'uomo attuale, come razza, non si estinguesse, capii che doveva «rinascere».

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