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L'eperienza del labirinto in Anais Nin

In uno scritto intitolato "Il labirinto", la scrittrice statunitense Anais Nin, musa di Artuad e Breton, spinge il suo simbolismo fino alle soglie dell'esperienza surrealista e  riproduce, in termini surrealisti, l'esperienza esistenziale come percorso labirintico per eccellenza contraddistinto per ciascun individuo, ed in forma più o meno consapevole, da un sentimento di smarrimento generalizzato, da un senso di disorientamento dal quale è difficile riscattare la propria mente ed il proprio cuore.
Anche secondo il filosofo francese Bachelard l'esperienza del labirinto è una costante dell'essere umano già fin dalla primissima infanzia, quando cioè la vita stessa si identifica, per ciascun bambino, con la presenza del bene assoluto: la madre, che vuol dire nutrimento, calore, sicurezza. L'assenza temporanea della figura materna, di contro, rappresenta il nulla dell'assenza.
Il labirinto è dunque, prima di tutto, un'assenza, un silenzio: "Affondai in un labirinto di silenzio...Non volevo avanzare nel silenzio, sentendo che avrei potuto perdere la voce per sempre. Mossi le labbra per ricordare le parole che avevo pensato, ma sentii che esse non articolavano più parole".
Il labirinto è mancanza di un punto di riferimento; è un deserto circoscritto e frammentato nel tempo e nello spazio.
Ancora Anais Nin: " La prospettiva non cambiava, il cammino era senza curve; i sentieri si incatenavano così misteriosamente che non sapevo mai quando avevo voltato a destra e a sinistra. Stavo camminando sulla parola ossessione a piedi nudi..."
Prima ancora scrive: " Le ossessioni divennero infinito. Mi perdetti. Mi fermai solo a causa dell'orologio che puntava sull'angoscia. Un'angoscia del non tornare, del non vedere queste cose che una volta sola. Così costretta ad andare avanti, senza saper, alla cieca. Tutto si sarebbe perduto. Non sapevo che alla fine non mi sarei trovata dove ero partita..."
Il labirinto ha un inizio e una fine: nel percorrerlo la paura di ciò che ci aspetta viene superata dalla paura di non riuscire a ritrovare il punto di partenza che ci siamo lasciati alle spalle.
L'esperienza del labirinto è fatta di accadimenti, emozioni, esperienze di perdite. Per uno scrittore, per un filosofo, per un artefice della parola insomma, per uno che attraverso la parola vive, l'esperienza di perdita si identifica con la scomparsa della parola significante e con l'incapacità di elaborare pensieri e comunicarli.
Il saggio della Nin risulta in questo caso altamente illuminante. Il viaggio attraverso il labirinto della vita e delle parole si conclude tornando al suo inizio e restituendo l'autrice alla felicità dell'infanzia. L'essere termina l'esilio dell'esistenza recuperando l'interezza delle sue origini:
"Non mi muovevo più con i piedi. La caverna non era più una strada senza fine che mi si apriva dinanzi. Quando cessai di camminare fermamente, contando i miei passi; quando cessai di testare le mura attorno a me con dita contorte come radici, cercando nutrimento, il cammino labirinteo s'ingrandì, il silenzio divenne arioso e camminai in una bianca città...Era un alveare di celle bianche avorio, strade come nastri di vecchio ermellino. Pietre e calce erano impastate con luce di sole, con muschio e bianco cotone... e la città giaceva come tappeto sotto piedi in contemplazione. Il bianco orifizio dell'infinita caverna si aprì. Sull'orlo stava una bimba di undici anni che portava il diario in un cestino"







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