Analoghe figure si ritrovano in altre culture: nella Genesi
biblica ebraica Yuval (Iubal o Jubal in altre trascrizioni) viene definito “padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto”, il leggendario imperatore
cinese Ku viene considerato creatore di molti strumenti musicali.
E questo intimo legame sembra
avvalorare la tesi del grande antropologo Claude Lévi-Strauss, che ritiene la
musica non solo un complemento del racconto mitico, ma qualcosa che del mito ne
condivide il codice genetico, rappresentando quindi, come il mito, il punto di
congiunzione tra la finitezza del tempo umano e l’eternità del divino.
Non è un caso, e mi ricollego
nuovamente alla Grecia Antica nella fase antecedente al sorgere del pensiero
filosofico, che i miti (proto filosofia a-razionale) assegnano alla musica un potere soprannaturale e simbolicamente lo rappresentano attraverso due divinità, Apollo e Dioniso.
Espressione dell’irrazionalità al
di là della ragione, del calcolo, dell’idea, è Dioniso il suonatore di aulòs
(paragonabile al moderno oboe). Dioniso è l’incantatore immediato, il mistico, l'espressione
di quel dionisiaco celebrato da Nietzsche nella Nascita della Tragedia e che
ispirò Jim Morrison dei Doors, il quale teorizzava l’atto musicale rock, il rock fusionale degli anni ’60, a
partire da Nietzsche. Si trattava di un rock libero dai principi della
ragione, dai vincoli e dalle costrizioni sociali.
Al di là della irrazionalità e del misticismo,
Apollo è il suonatore di cetra, simbolo, come scriveva il filosofo Liebniz, "di una inconsapevole
matematica spontanea che la nostra anima applica quando sente la musica", di una geometrica armonia e un
gusto spontaneo di un calcolare inconscio: un sentire il ritmo che è
fondamentale per il nostro essere nel mondo,
Dioniso e Apollo rappresentano due civiltà diverse due modi diversi di intendere la musica. Essi trovano nel mito di Orfeo una sintesi armonica e
forniscono tuttora un terreno fecondo per la speculazione filosofica
sottolineando quanto strettissimo sia il legame tra le due discipline.
Orfeo che dà il titolo alla
fiaba, è un simbolo importante per la
musica.
Non sono pochi i
compositori che a lui hanno dedicato opere.
Ricordiamo Monteverdi nel 1607 e la sua fiaba in arte autobiografica, Gluck che ispirandosi ad Orfeo ha tratto
un’opera indimenticabile, fino all'ultima rinascita orfica che si ha con Richard Wagner
nel ciclo dei Nibelunghi e la sua esaltazione nel Parsifal.
Questo perché il mito di Orfeo è
tra i numerosi miti greci quello che
maggiormente simboleggia il potere della musica, il suo rapporto con le
passioni, con la morte, la sua capacità di accompagnare l’uomo nel suo viaggio
verso l’individuazione delle forme della bellezza, sicché ciò che Orfeo estrae
dalla sua lira è come scrisse Fubini Enrico, studioso fra i maggiori in Europa della teoria
della musica e della cultura musicale dalla classicità a oggi, "è una potenza che
sovverte le leggi naturali, che può riconciliare in unità gli opposti principi
su cui sembra reggersi la natura: vita/morte; male/bene; bello/brutto. Queste
antinomie vengono sciolte nel canto di Orfeo dalla potenza magico-religiosa
della musica".
Vediamo perché.
Vediamo perché.
Il mito in sintesi narra che Orfeo fosse
figlio di Eagro, Tracia, ma alcuni ne attribuiscono la paternità ad Apollo
stesso, e di Calliope (Musa del bel canto, del canto epico)
Addestrato alla musica da Apollo stesso, dal dio ricevette in dono la cetra. Secondo la tradizione Apollo era stato sedotto dal
phonè (suono) della cetra, lo strumento a corda ricavato da Ermes dal carapace di una
tartaruga e sette nervi di capra, al punto che perdonò ad Hermes il furto di cinquanta buoi sacri e gli donò addirittura il caduceo, il bastone con i due serpenti
intrecciati che diventò il simbolo della presenza e dell’autorità di Hermes.
Con la lira, le cui corde Orfeo
aumenta a nove in onore delle muse, il
cantore intratteneva gli dei, incantava le belve, ma anche gli elementi della natura, al punto che le fronde degli alberi si avvicinavano quando sentivano il canto di Orfeo, e le montagne lo seguivano mentre passeggiava sulle pianure della Tracia.
Sotto la protezione di Apollo (simbolo
del Sole, della bellezza, dell’ordine, dell’equilibrio) Orfeo diviene,
tuttavia, sacerdote di Dioniso, l’oscuro
fratello, il dio del vino, dei culti orgiastici, nonché delle passioni oscure e
turbolente. È proprio con la lira di
Apollo (simbolo della razionalità, del calcolo) che Orfeo canta i misteri dionisiaci a
simboleggiare che solo il canto rasserena e permette di prendere distanza dal
fondo oscuro e turbolento delle emozioni che invadendo la coscienza possono
sopraffarla: le passioni più feroci si ingentiliscono e possono essere espresse
senza agire immediatamente in modo distruttivo.
Questo aspetto del mito è rinforzato anche dalla narrazione di un Orfeo capace con il suo canto di incantare anche le belve. Non dimentichiamo che nei miti e nelle fiabe gli animali rappresentano le tensioni pulsionali, le pressioni istintuali, la natura animale, contrarie all'integrazione tra Es-Io- Super Io necessaria alla felicità, alla maturazione armonica dell’individuo.
Questo aspetto del mito è rinforzato anche dalla narrazione di un Orfeo capace con il suo canto di incantare anche le belve. Non dimentichiamo che nei miti e nelle fiabe gli animali rappresentano le tensioni pulsionali, le pressioni istintuali, la natura animale, contrarie all'integrazione tra Es-Io- Super Io necessaria alla felicità, alla maturazione armonica dell’individuo.
La musica quindi, si dice in questa parte del mito non provoca solo il semplice
piacere, ma è qualcosa in grado di agire, qualcosa che “trasforma”. E questa
musica, ricordiamo che la mousikè greca è "trinitaria" (suoni, poesia lirica, danza), è strettissima compenetrazione tra linguaggio e
dimensione sonora.
La musica consente ad Orfeo di penetrare nelle tenebre, nel nulla
degli inferi, nel luogo in cui la speranza non è ammessa, tra i morti, e a
tentare di riportare tra i vivi l’amata Euridice che il morso di un serpente ha strappato alla vita.
Nel mito infatti si narra che Euridice oltre che da Orfeo fosse amata anche dal violento Aristeo che un giorno tenta di sedurla. Cercando di evitare l'aggressione di Aristeo, Euridice fugge, ma nella fuga calpesta un serpente e viene morsa. Alla notizia della morte dell'amata Orfeo non si scoraggia, e trovata l'entrata degli inferi a Cuma (presso Napoli) affronta la discesa tra i morti, supera le resistenze di Caronte e Cerbero, fino ad arrivare al cospetto di Ade e Proserpina. Qui ottiene dal dio degli Inferi il permesso di riportare Euridice alla luce del sole a patto di non voltarsi a guardare dietro di sé la sposa che lo segue.
Nel mito infatti si narra che Euridice oltre che da Orfeo fosse amata anche dal violento Aristeo che un giorno tenta di sedurla. Cercando di evitare l'aggressione di Aristeo, Euridice fugge, ma nella fuga calpesta un serpente e viene morsa. Alla notizia della morte dell'amata Orfeo non si scoraggia, e trovata l'entrata degli inferi a Cuma (presso Napoli) affronta la discesa tra i morti, supera le resistenze di Caronte e Cerbero, fino ad arrivare al cospetto di Ade e Proserpina. Qui ottiene dal dio degli Inferi il permesso di riportare Euridice alla luce del sole a patto di non voltarsi a guardare dietro di sé la sposa che lo segue.
Questa parte del mito simboleggia che la musica, se da un lato è
concepita come fattore di civiltà, come componente essenziale nell'educazione
dell’uomo e a sua volta educatrice, dall'altro è stata sentita anche come
irrazionale potenza, oscura forza, dionisiaca, capace di innalzare sì l’uomo ma
anche di sprofondarlo tra le figure abitatrici degli inferi, del proprio
abisso, nel buio che appare insondabile, nel Caos che precede il lavoro di
conoscenza di se stessi, di svelamento delle proprie potenzialità e realizzazione della propria individualità esponendosi al rischio di precipitare laddove la
ragione trova i suoi alibi per non proseguire. L'approdo di questo viaggio, in termini nietzschiani, è giungere alla massima espressione del dionisiaco: ricondurre l’individualità nell'unità originaria, fino ad un'identificazione totale dell'artista con "l'uno
originario, col suo Dolore e la sua contraddizione": e squarciare, direbbe
Schopenhauer, il velo di Maya fino ad una estensione cosmica dell’anima.
Ma l’incontro con forze che di rado
vedono la luce del giorno può condurre al
limite estremo: raggiungere una intensità totale (la frenesia dionisiaca di cui parla Jim Morrison, il leader dei The Doors) da annullare il mondo
circostante, fino al punto in cui il razionale brucia i suoi limiti e si
autodistrugge rendendo ancora più labile l’equilibrio, il confine tra genialità
e follia. Una immagine questa che, ricollegandoci al rock e al primo blues ad esempio, come precedentemente scritto inaugura una lunga e
sfortunata lista maledetta di artisti che moriranno in giovane età Hendrix,
Morris, Kurt Cobain, Elvis, Amy
Whinehouse.
Frederic Leighton, Orfeo ed Euridice, 1864.
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