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L'eterno marito di Fëdor Dostoevskij

L'anno era il 1849 e il giovane Dostoevskij reduce dal successo del suo primo romanzo, Povera Gente, si era unito un gruppo umanitario liberale dedicato allo studio di modelli utopici del socialismo. Durante uno dei loro incontri, la polizia arrestò l'intero gruppo i cui membri furono imprigionati in isolamento, condannati per le critiche contro il governo russo e trascinati nella piazza della città per essere fucilati a gruppi di tre persone alla volta. La condanna a morte fu letta ad alta voce. Fëdor Dostoevskij, che all'epoca aveva 28 anni, attendeva nel secondo lotto di morire quando un corriere dello zar Nicola giunse nella piazza con l'annuncio che grazie alla magnanimità dello zar, ai prigionieri era risparmiata la vita. La condanna era stata commutata a quattro anni di lavori forzati nella prigione di Omsk in Siberia.  L'intera esecuzione era stata nient'altro che una terribile farsa, una strategia per il controllo delle insubordinazioni.  Fëdor Dostoevskij uscì da quella esperienza con i nervi a pezzi, l'acuirsi delle sue crisi epilettiche, e la convinzione nascente che ogni sforzo per alleviare la sofferenza umana è destinato al fallimento, indicando la conversione cristiana come l'unica via per l'umanità.

È tenendo conto di queste esperienze che la letteratura di questo grande autore russo deve essere letta e tradotta. Un buon traduttore sa che Fëdor Dostoevskij aveva una conoscenza penetrante della psicologia umana e della realtà della sofferenza. La sua vita era oscura e drammatica come quella dei protagonisti dei suoi romanzi. 
L'eterno marito, scritto nel 1870, è un'opera oscura e comica, altamente rappresentativa della tecnica di Dostoevskij di presentare personaggi che agiscono senza una piena comprensione delle proprie azioni. Con maestria unica nel suo genere, l'autore consente al pubblico di assistere alle loro decisioni, condividere le loro confusioni mentali, e intravedere le motivazioni sottostanti alle loro scelte. La maggior parte degli scrittori contemporanei non regge il confronto con il maestro russo.
Come molti dei romanzi di Dostoevskij, L'eterno marito presenta un mondo di ambiguità e assurdità invaso da persone le cui emozioni predominanti sono la contraddizione, l'umiliazione, la vergogna, l'astuzia e il senso di colpa. 

Un vecchio amico, Pavel Pavlovic, dopo un'assenza di nove anni di silenzio,  bussa alle tre del mattino alla porta di Velchaninov e lo informa che sua moglie è morta. La vicenda di per sé assume tonalità imbarazzanti e oscure perché Velchaninov era l'amante della donna, e Pavel Pavlovic attraverso continue allusioni sembra conoscere la terribile verità. 
Pavel Pavlovic ha una figlia, Liza, che con ogni probabilità è figlia di Velchaninov. La ragazza viene affidata alle cure di Velchaninov, ma morirà perché malata. 

Ciò che si dispiega tra i due personaggi è un gioco psicotico tra gatto e  topo: "Un gatto che si sente inferiore al topo; che ora lo ama e ora lo odia; che vorrebbe che il topo continuasse ad andare a letto con le sue donne." Pavel Pavlovic è "l'eterno marito" che Velchaninov definisce  ridicolo e impotente destinato a essere solo un marito e niente di più,  un'appendice, un ornamento di sua moglie. Egli è un buffone e un osservatore; è sia preda che provocatore; vendicatore e ammiratore. Lecito  è supporre che abbia anche  una  qualche attrazione omosessuale superficiale nei confronti del suo rivale, il quale insiste a baciare,  a passare del tempo insieme, nonostante la ripugnanza palpabile di Velchaninov.
Più particolari vediamo e più le cose si fanno interessanti, perchè Dostoevskij sa che in un romanzo ciò che si vede fuori equivale a rivelare ciò che si agita dentro. I personaggi dello scrittore russo sono indimenticabili. Pongono interrogativi filosofici, universali che trovano risoluzione nella negazione dell'orgoglio soggettivistico in nome di Cristo, di Dio. Non vi è nessuna riduzione della condizione umana: tutti  "sposano" la sofferenza e tutti devono imparare a sopportarla come il Cristo il cui "io" era autenticamente un "noi". Ciò comporta un farsi carico delle sofferenze altrui e farle proprie. Ma proprio questa via dolorosa, nella visione profetica di Dostoevskij, conduce alla felicità eterna.
Così scrive nei suoi appunti:  "E questa è la massima felicità. In tal modo, la legge dell’io si fonde con la legge dell’umanesimo, e nella fusione entrambi gli elementi, l’io e il tutto (evidentemente, due contrapposizioni estreme), reciprocamente annullandosi l’uno a favore dell’altro, nello stesso tempo raggiungono anche lo scopo supremo del proprio sviluppo individuale, ciascuno per proprio conto".











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