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Riccardo II e la crisi d'identità

Alla National Gallery si conserva il Dittico Wilton, la pala d'altare davanti alla quale il re Riccardo II era solito pregare. Il re è tra Giovanni Battista, Edoardo il Confessore e Edmondo martire. La Vergine è tra undici angeli e sembra presentare al re, l'Unto da Dio, unico e divino padrone dell'Inghilterra, suo figlio che protendendosi verso il sovrano genuflesso, dimostra la sua approvazione. A questo re riccamente vestito e nominato da Dio (secondo la definizione Tudor di monarchia) Shakespeare dedica un'opera in cui il protagonista crede sinceramente nella divinità della sua regalità, crede sinceramente che la sua rovina sia opera di traditori, ed è sinceramente dispiaciuto per se stesso. 




L'opera rappresenta l'epocale lotta nella storia inglese tra le due casate di Yorke e Lancaster, Riccardo II, re in carica, e suo cugino, Enrico Bolingbroke, che piano piano assume il ruolo di pretendente al trono. Molto probabilmente Shakespeare scrisse il Riccardo II nel 1595, attingendo alle cronache di Holinshed. Nelle cronache si legge che Enrico figlio dello zio del re Giovanni di Gaunt, ed erede dei Lancaster, viene mandato in esilio per sei anni. Riccardo, ultimo dei Plantageneti, oltre a bandirlo dal regno, lo priva della sua eredità per finanziare, con le sue ricchezze, una guerra contro l'Irlanda. Di fronte al malcontento popolare, Bolingbroke trova il pretesto per ritornare dall'esilio, reclamare le sue terre, ma anche la corona e l'intero regno. Nobili e cittadini comuni, sentendosi oppressi da Riccardo, si uniscono alla causa di Bolingbroke. Riprendendo dalle cronache di Holinshed nomi ed eventi, Shakespeare scrive un'opera teatrale piena di sbalorditiva poesia, ricca di metafore e immagini che scatena domande profonde su ciò che ci rende umani e su come pensiamo la nostra identità.
La domanda sull'identità assume enorme valenza nella parte finale dell'opera quando il volubile Riccardo, chiuso nel castello di Pomfret, una volta abdicato a favore del machiavellico rivale, s'interroga su chi sia se non è il rex imago Dei per cui è nato, l'uomo al centro dell'attenzione di tutti. Chiede uno specchio per vedere l'immagine di se stesso e lo rompe per vedere la frantumazione di sé. L'egocentrico, sciocco e arrogante Re, irresponsabile e inetto, che si crede al sicuro nel suo diritto al trono perché così vuole Dio, incline a lasciarsi facilmente influenzare dall'adulazione, sicché "mille adulatori siedono sulla sua corona", non ha una identità a cui tornare quando il titolo di re è perso. Rinnega il suo ruolo, in nome di Dio rifiuta il nome di re e si spinge oltre: "I have no name, no title... and  know not now what to call myself... I must nothing be". Immagini dell'Eden e della caduta dell'uomo si ripetono per tutta la durata del dramma. Il connubio con la caduta del Re è molto forte.  Di ritorno dall'Irlanda, Riccardo scopre che le sue truppe sono state sciolte, i suoi alleati sono stati giustiziati e l'uomo di cui si fidava per sconfiggere Bolingbroke (York) si è unito a lui. Sentendosi impotente, Riccardo  accetta di restituire le proprietà di Gaunt a Bolingbroke e rescindere il suo esilio. Riccardo cade e Bolingbroke prende la sua corona e viene incoronato con il nome di Enrico IV.
Improbabile che gli spettatori provino simpatia per questo Riccardo vanitoso, arrogante e infantile che si paragona a Cristo, governa per interesse personale tassando le persone e la terra per pagare la sua guerra con l'Irlanda fino ad appropriarsi dell'eredità di Bolingbroke.  Eppure, mentre il suo destino si dispiega e il Re poeta acquisisce consapevolezza di sé riflettendo con calma e poeticamente sulla sua situazione e la sua stessa mortalità, emerge come complessa figura tragica capace di ispirare pietà e coinvolgere emotivamente il pubblico. Dalla scena due dell'atto terzo fino alla fine del dramma, da quando Riccardo torna in Inghilterra per scoprire che suo cugino è diventato forte e potente fino a quando, consegnata la corona a Bolingbroke, viene imprigionato a Pomfret e ucciso, viene elevato dal maestro narratore Shakespeare attraverso la poesia. La scena della deposizione inizia con bellissimi versi mentre Riccardo pubblicamente abdica e inizia il suo tragico risveglio. In un capovolgimento di ruoli il cugino offeso del primo atto, il restauratore dell'ordine, privo della legittimità a governare ma dotato delle abilità politiche che mancano al Re, diventa simile a Riccardo del cui sangue infine si sporca le mani. Per lui non c'è più empatia. Emotivamente siamo tutt'uno con Riccardo che, quando la maschera della regalità scivola via, dal suo mondo che si è ridotto ai confini di una cella di prigione, in modo potente ci induce a fare i conti con l'alterità, la vulnerabilità, la perdita ("Ho gettato via il tempo, e ora il tempo getta via me"), l'isolamento, la marginalità, il caos interiore e soprattutto qualcosa che non sempre si ha il coraggio di affrontare: il viaggio verso se stessi.

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