Nei primi anni del Novecento,
Andrej Belyj, antroposofo simbolista russo, dedicava al simbolismo di F.W.
Nietzsche un libro dal titolo Il colore della parola. Suggestivo è il contenuto
del testo, specialmente laddove riesce a comunicare il significato profondo
della poesia simbolista, del suo faticoso farsi attraverso i momenti più
salienti: travaglio interiore e gestazione, immersione totale, percezione del
proprio sé, espressione di esso attraverso il simbolo assurto dall'inconscio
senza mediazioni razionali o logiche, ma solo per automatismo puro. In questo
senso l'arte assume quella funzione teurgica che Belyj le attribuisce e il
ruolo di terapia dell'anima. Accedere alla comprensione del proprio mondo
psichico è possibile solo attraverso la sofferenza della psiche, attraverso la
malattia dell'anima. Quest'ultima viene spesso confusa con la malattia mentale
alimentando la convinzione che coloro che si impegnano in questo lungo lavoro
interiore sono folli o a un passo dalla follia. La corrispondenza, poi, di un
reale vissuto nevrotico in grandi personaggi come Nietzsche, non fa che
avvalorare questa tesi, contribuendo a creare intorno a questi geni maledetti
della parola, condizioni di dolore e solitudine che già di per sé sono compagne
indivisibili del processo di smascheramento del proprio io. Nietzsche scelse
come mezzo di espressione più efficace l'aforisma che Belyj definisce "un
ponte verso il simbolo". Se si fosse abbandonato all'immediatezza della
parola poetica, si sarebbe salvato dall'incedere di quella nevrosi che confuse
il suo mondo interiore negli ultimi anni della sua vita? In una delle sue
ultime opere, l'Ecce Homo, il filosofo tedesco afferma a proposito del rapporto
conoscenza del profondo-follia: "non è il dubbio, è la
certezza che fa diventare pazzi (…) ma solo dalla profondità si può sentire
cosi, bisogna essere un abisso, un filosofo." Eppure, sebbene cercasse di immergersi in essi ("In un senso veramente spaventoso io sono l'uomo degli abissi"), Nietzsche non seppe accettarne l'oscurità, non riuscì a contemplare l'infinito mistero di fronte al quale l'uomo accetta l'infinitamente piccolo che è in lui. In una lettera all'amico Franz Overbeck del 14. 4. 1887, scrive :" Eternamente ritorna l'uomo di cui sei stanco, il piccolo uomo(…) Nudi li avevo visti una volta ambedue, il più grande e il più piccolo degli uomini; troppo simili l'uno all'altro, anche il più grande, ancora troppo umano. Troppo piccolo il più grande! questo era il mio disgusto per l'uomo! E eterno ritorno anche del più piccolo! Questo era il mio disgusto per l'intera esistenza!". E proprio in questo dissidio Belyj credette di rintracciare le radici della sua follia. Secondo l'antroposofo russo, Nietzsche fu come un epicureo il quale raggiunta la soglia dell'estremo piacere, non riesce ad annullarsi in esso. Egli ripeteva di voler incarnare pienamente lo spirito dionisiaco. In realtà lo spirito apollineo non solo non entrò in combinazione simbiotica con il primo, ma sembra che, per ampi tratti, lo sopraffacesse. Atteggiamenti antitetici convivevano in lui generando terribili conflitti che lo prostravano, traducendosi in quello stato di malattia che costituiva, il suo costante "lato notturno della vita". A un certo punto la sua psiche sembrò perdersi nella ricerca di quegli spazi iperborei nei quali le possenti ali dell'Oltre Uomo potessero librarsi libere in volo. E delirando, scivolò nella follia. Nel libro citato in questa pagina, Belyj ci consegna una immagine poetica del Nietzsche degli ultimi anni: " Negli ultimi anni, Nietzsche taceva, la musica suscitava il sorriso sulle sue labbra estenuate. Quando ci colgono segreti terrori, segrete paure, nessuno di coloro che ci circondano può consolarci, Il folle Nietzsche però sapeva certo come avvicinarsi nel momento del segreto pericolo e incoraggiare con un lungo sguardo muto".
Curt Stoeving (1863-1939), Ritratto di Friedrich
Nietzsche – 1890.
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