Di fronte a quattro resoconti dello stesso incidente, tutti nettamente diversi tra loro, la verità può mai essere realmente trovata? È questo il punto centrale di Rashōmon (Leone d’Oro a Venezia e Oscar per il miglior film straniero), il classico del 1950 diretto dal regista giapponese Akira Kurosawa (1910 – 1998). Adattato in parte dai racconti brevi di Ryunosuke Akutagawa, “Yabu no Naka” e “Rashōmon”, il film, ambientato in una Kyoto devastata dalla guerra alla fine del periodo Heian, racconta di un procedimento giudiziario, ricordato in flashback, relativo a un crimine misterioso. Un ladro, Tajômaru (Toshirô Mifune) è sotto processo per aver ucciso un samurai (Mayasuki Mori) e aver violentato sua moglie (Machiko Kyô) nella foresta. O almeno così sembra.
TRAMA
Piove a dirotto. Sotto la porta in rovina della città di Rashōmon due uomini, il taglialegna (Takashi Shimura) e il prete itinerante (Minoru Chiaki) sono seduti per ripararsi dall'acquazzone. Ricordano l'interrogatorio di un caso di omicidio a cui hanno appena assistito al Kebiishicho (tribunale). Alla storia si unisce anche un passante (Kichijiro Ueda) venuto a ripararsi dalla pioggia. Un samurai (di cui il taglialegna avrebbe rinvenuto il corpo allertando le autorità, e che il prete conferma di aver visto viaggiare con sua moglie quel giorno) è stato ucciso in una foresta vicina e il ladro coinvolto nell'incidente, la moglie del samurai e lo spirito morto del samurai (parlando attraverso la bocca di una medium) riportano separatamente in tribunale versioni diverse e profondamente contraddittorie dell'aggressione. Infine, un quarto resoconto è fornito dal taglialegna che afferma di aver assistito all'attacco. Ma a quale versione si può credere?
Nessuna rivelazione definitiva.
I quattro resoconti cospirano
per presentare la verità come un'entità amorfa e concordano solo su un fatto che
un samurai è stato ucciso. Il Ladro afferma di aver ucciso il samurai in uno
scontro con la spada dopo averne sedotto la Moglie con il suo fascino; la
Moglie del Samurai (Machiko Kyō) afferma che il bandito l'ha stuprata,
suggerendo poi di essere caduta in trance mentre teneva in mano il coltello del
marito, che forse lei stessa ha ucciso, e,
stranamente, lo stesso samurai morto (Masayuki Mori) che testimonia
dall'oltretomba per affermare che ha fatto harakiri per la vergogna. Un quarto
testimone (Takashi Shimura) offre la sua versione, ancora una volta diversa, e un
po' come per i personaggi di Aspettando Godot di Samuel Beckett
(scritto due anni dopo), la cui attesa è inutile e non si raggiunge alcuna
comprensione superiore, nessuna verità sul presunto omicidio viene infine
rivelata.
Tutti cercano di proteggersi
raccontando bugie di comodo.
Verità, storia, memoria e
passato... sono solo finzioni? L'uomo è, come scrisse Pascal, “solo un
travestimento, solo menzogna e ipocrisia, sia verso se stesso che nei confronti
degli altri”? Nel film di Kurosawa tutti accusano se stessi di essere gli
assassini, come se tutti i personaggi volessero darsi un posto centrale, come
se tutti volessero occupare il ruolo di protagonista, essere “l'eroe” della vicenda,
proteggere la propria autostima. Volendo distorcere le cose a proprio vantaggio,
esagerando le azioni, nel bene e nel male, ognuno fantastica la propria storia,
realizza un film e una sceneggiatura che gli si addice e mente anche a se
stesso tanto quanto agli altri. Il bandito rende eroico il suo personaggio di
guerriero selvaggio; la donna aggiunge emozione, pathos e, come vittima
sofferente, drammatizza la sua storia. La testimonianza del morto attraverso la
chiaroveggente è teatrale, e la sua apparente verità è immediatamente
contrastata dalla domanda di uno dei personaggi: "Se gli uomini mentono in
questo mondo, cosa ti rende così sicuro che saranno onesti nell'altro?".
Ma non è solo una questione di
testimoni sfuggenti.
Riflettendo sulla natura fugace della verità, Rashōmon è un attacco alla possibilità di registrare la storia in modo fedele e accurato sottolineando di fatto che l'uomo all’interno del mondo non ha accesso alla realtà ma solo al modo in cui la vede, a una prospettiva che gli è propria, che gli è personale. Incapacità di afferrare il reale, rapporto fatti e percezione: il rompicapo filosofico al centro del film è chiaro. Se qualsiasi narrazione sul mondo che produciamo è un mondo a se stante (con le nostre percezioni che possono avere forti implicazioni nella vita reale perché possono plasmare il modo in cui agiamo, andiamo avanti nelle nostre relazioni, giudichiamo...) com’è il mondo reale? Chi ha esattamente ragione? Come si fa a stabilire a chi credere? Da che parte stare e in base a cosa? In tribunale, non vediamo mai i volti dei giudici, solo quelli delle persone che, chiamate a dare le loro testimonianze selvaggiamente contrastanti sulla morte del samurai, stanno parlando con noi. Noi siamo i giudici e siamo sfidati a non cedere a facili categorizzazioni e alle loro implicazioni. Più sentiamo, meno riusciamo a mettere insieme i pezzi della narrazione Come possiamo conciliare queste verità separate? Persi in foreste di verità come il taglialegna che all’inizio del film dice: "Non ci capisco niente" il prete: “Non ho mai sentito niente di così strano" cerchiamo di dare un senso al caos. Ma la loro concezione della realtà e implicitamente anche la nostra?
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