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We have always lived in the castle -Abbiamo sempre vissuto nel castello- di Shirley Jackson: una storia di alienazione.

"Le case non sono spazi sicuri nella narrativa di Shirley Jackson, ma sono palcoscenici di sconvolgimenti. Rispecchiano sia la vulnerabilità dei loro inquilini che i loro peggiori impulsi".

Nel suo ultimo e più grande romanzo, We Have Always Lived in the Castle (Abbiamo sempre vissuto al castello) scritto agli inizi degli anni '60, Jackson mette in primo piano due donne alienate, diverse tra loro ma complementari, intrappolate dalle proprie paure e dall'ambiente circostante, così terribilmente sole nella loro alterità, colte nel processo di disintegrazione del loro io, attraverso la lente del trauma. Crea inoltre un certo archetipo di narratore di cui non ci si può e non si deve fidare: un motivo così popolare nella letteratura di oggi.

Incipit:

"Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti".



Trama:

Le due sorelle Blackwood si sono barricate nella loro decadente villa (una grande struttura in rovina ricoperta di viticci che chiamano Il Castello) arroccata in disparte nel Vermount rurale temute e vilipese da quelli del paese vicino. Sei anni prima la sorella minore, Mary Katherine o Merricat, come è conosciuta, ha avvelenato gli altri membri della famiglia, apparentemente perché era stata mandata nella sua stanza senza cena. La sorella maggiore, Constance, si è presa la colpa ma è stata assolta per insufficienza di prove. 

Ora diciottenne, Merricat vive con lei e il loro zio Julian (che sopravvissuto all'omicidio di massa ha riportato danni fisici e mentali) in un ammasso disordinato, che è tutto ciò che rimane di una dinastia un tempo grandiosa (una presenza peculiare nella cittadina) praticamente spazzata via quando Merricat ha mecolato nella zuccheriera dell'arsenico allo zucchero che la maggior parte della famiglia ha sparso, come d’abitudine, sul dessert. Come ci si potrebbe aspettare, le loro vite sono segnate dagli omicidi suddetti, le cui circostanze generano paura e pettegolezzi tra gli abitanti del paese che hanno ostracizzato la famiglia. 

I Blackwood sopravvissuti sono diventati una leggenda locale: la gente del paese è convinta che sia Constance la responsabile degli omicidi perché quasi tutti nella famiglia sono morti dopo aver mangiato il pasto da lei cucinato e perché ha lavato la zuccheriera prima dell'arrivo della polizia, con il pretesto che ci fosse un ragno dentro. Dei Blackwood solo Merricat varca i cancelli di casa due volte la settimana per andare a fare la spesa o a comprare libri, mentre Constance, su cui grava ancora l'ombra del sospetto, (...non va mai oltre il suo giardino nei terreni sconnessi e cadenti della casa) e Julian (ossessionato dall’idea di scrivere un libro sull’omicidio) restano al sicuro dentro le mura.

La gente del posto ha sempre avuto risentimento verso i Blackwood, e questa animosità complica le escursioni della ragazza nel paese. Merricat però percepisce il suo cammino nel villaggio come un gioco da tavolo sparso di trappole e misure da adottare per evitare i "pericoli" e proteggere se stessa (e la sua famiglia) dalla diffidenza, curiosità e ostilità degli adulti e dai bambini che la perseguitano cantando beffardi una filastrocca su Costance. La sua profonda antipatia per la gente del paese è evidente nel suo desiderio di vederli morti: 

“Mi sarebbe piaciuto entrare nel negozio di alimentari una mattina e vederli tutti […] sdraiati lì a piangere per il dolore e a morire. Poi mi sarei servito da solo della spesa, […] scavalcando i loro corpi, prendendo tutto quello che mi andava a genio dagli scaffali…”

Una frase come "Basta dire la parola signorina Mary Katherine e noi usciamo tutti e ti aiutiamo a fare i bagagli" d'altro canto sottolinea il senso di diversità della comunità nei confronti di Merricat e forse la loro impazienza di vedere i Blackwood andarsene.

La ragazza, che in prima persona ci introduce nella storia, pratica inoltre una specie di "magia simpatetica", attraverso parole magiche, feticci e totem realizzati con cianfrusaglie, seppellendo oggetti come monete e biglie nel terreno e inchiodando oggetti come libri e orologi agli alberi, per evocare un’illusione di sicurezza e salvaguardare la fragile esistenza della vita quotidiana in casa Blackwood. Crede che questi incantesimi manterranno la tenuta al sicuro:

La domenica mattina esaminavo i miei beni di sicurezza, la scatola di dollari d'argento che avevo seppellito vicino al ruscello, la bambola sepolta nel campo lungo e il libro inchiodato all'albero nella pineta; finché erano dove li avevo messi, niente sarebbe potuto entrare e farci del male”.

Ogni tanto ha delle crisi selvagge, rompendo piatti e bicchieri che Constance ripulisce con calma. Tuttavia, non è in grado di impedire l'arrivo improvviso del cugino Charles, che inizia a corteggiare la pallida Constance, ma il cui intento è mettere le mani sulle fortune stratificate della famiglia testimonianza della loro lunga eredità.

L'antipatia di Merricat per lui alla fine la porta a bruciare la casa dei Blackwood, causando la morte di zio Julian. I resti della casa vengono abbattuti dagli abitanti della città, che vedono l'incendio come un'opportunità per scaricare la loro rabbia sui Blackwood. Dopo essersi nascosti nei boschi, Constance e Merricat tornano alle rovine della loro casa e riprendono la loro routine quotidiana come se nulla fosse accaduto mentre agli abitanti del paese, che portano loro offerte di cibo per senso di colpa...



Recensione:

La famiglia, perseguitata dal suo tragico passato e dalle molestie degli abitanti del paese vicino è confinata in una casa che è la rappresentazione fisica delle menti turbate dei suoi inquilini. Il libro, sebbene relativamente breve (qualcosa più di 200 pagine), impiega molto tempo per dettagliare il flusso di coscienza di Merricat e spiegare gli eventi passati e presenti dal suo punto di vista. Gli istinti protettivi combinati con i suoi insoliti schemi di pensiero e rituali indicano che la sua narrazione potrebbe essere deformata e inaffidabile, preparando il lettore a una storia piena di ambiguità. Il suo personaggio è unico e inquietante. La ragazza è tanto deliziosamente infantile (di certo non si vede come un'assassina di massa e quindi per molti versi è ancora una bambina, senza alcuna comprensione delle conseguenze delle sue azioni) quanto totalmente sadica e diabolica.

La sua voce oscilla tra tono fiabesco, paranoico, spaventato e minaccioso, come si evince da citazioni come "Mary Katherine non deve mai essere punita. Non deve mai essere mandata a letto senza la sua cena". Non scopriamo mai cosa abbia scatenato il suo attacco omicida alla sua famiglia, ma è sicuro dire che è stato probabilmente qualcosa di banale che l'ha portata a essere mandata in camera quel giorno. Le sue stranezze, mentre elenca allegramente le qualità dei veleni letali o elenca macabre fantasie omicida e di raccogliere i cadaveri dei suoi aguzzini mentre fa la spesa settimanale, sono ampiamente assecondate da Shirley Jackson.

Quando Mary Katherine si trova in una situazione in cui non vuole trovarsi, dichiara di voler vivere sulla luna. Mentre sfogliamo le pagine del libro, assistiamo allo straniamento di un’anima  che ha imparato a fare affidamento su se stessa per affrontare gli orrori che la circondano e i cui problemi mentali, iniziati presumibilmente in famiglia, sono peggiorati con il sensazionalismo attorno all’avvelenamento. Gli stessi inutili trucchi di magia o il gioco mentre si reca in paese sono il suo metodo per dare un senso alla realtà: trasformarla in una storia di fantasia più accettabile. 



In We Have Always Lived in the Castle, Shirley Jackson porta il lettore in un oscuro labirinto dell'anima, raccontando una storia di alienazione inizialmente da qualcosa di esterno e ciircostante o da qualcosa finora sperimentato come appartenente a se stessi, che non si dissipa ma persiste e si allarga in uno stato di soglia di estraniamento dal mondo e dalla propria identità, spiacevolmente onirico.

L'abbandono e l'impotenza dei suoi protagonisti vengono trasmessi in modo altamente contagioso ai suoi lettori tramite un linguaggio chiaro, che è così poetico perché non c'è una sola parola che sia di troppo, e strategie narrative che spostano costantemente le prospettive dei personaggi e dei lettori l'uno dentro e contro l'altro. Le emozioni vengono omesse dal testo, non raccontate, ma evocate direttamente nel lettore a creare, nel confine del noto e del familiare, un senso di tensione claustrofobico, (poiché ognuno dei personaggi è intrappolato dalle proprie paure) che diventa insopportabile con il passare del tempo facendo sentire il lettore in ansia e in attesa del culmine, del finale che arriva inaspettatamente e disturba l'ordine esistente.

Fin dai primi paragrafi, il lettore è accompagnato da stranezza, incongruenza e ansia dolorosa. Qualcosa non è come dovrebbe essere, e i capitoli successivi dimostrano che questa intuizione non è sbagliata:

"Dopo la colazione, nelle belle giornate in cui non dovevo scendere in paese, avevo da lavorare. Il mercoledì facevo sempre la passeggiata lungo il recinto. Era necessario per me controllare e accertarmi costantemente che la rete metallica non fosse rotta e che le porte fossero ben chiuse. Potevo fare le riparazioni da solo, riannodare il filo metallico nel punto in cui si era staccato, legare le estremità sciolte, e mi faceva piacere sapere, ogni mercoledì mattina, che eravamo al sicuro per un'altra settimana". 

E ci chiediamo solo se le mura della tenuta di Blackwood proteggessero i suoi abitanti dal mondo, o forse il mondo dalle ragazze...

Mentre il fumo di un incendio devastante si dirada, le due sorrelle vengono lasciati indietro per celebrare provvisoriamente un "lieto fine" da fiaba ironicamente pungente.


L'autrice

Nata nel 1916, Jackson iniziò a pubblicare racconti su riviste mentre era ancora al college; dal 1943 in poi pubblicò regolarmente su riviste letterarie e femminili. Il suo racconto "The Lottery" (1948), un drastico smascheramento della crudeltà che si cela appena sotto la superficie civilizzata e idilliaca di una piccola città, pubblicato sul The New Yorker oggi è riconosciuto come uno dei più importanti racconti americani mai scritti. Jackson pubblicò un totale di oltre 100 racconti e sei romanzi, il più noto e influente dei quali è senza dubbio The Haunting of Hill House (1959), definito dai critici un "capolavoro sovversivo che lancia un attacco su più fronti contro il genere gotico stesso e i costrutti ideologici conservatori che ha tacitamente cercato di rafforzare sin dalla sua nascita nel 1763". 

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