Le
figlie di Prometeo:
Mary Wollstonecraft e Mary Shelley, due vite contro il destino
C’è qualcosa di profondamente contemporaneo nel fascino che continua a circondare Mary Shelley e sua madre, Mary Wollstonecraft. Due donne, due epoche, un filo rosso: l’idea che la libertà femminile nasca solo nel momento in cui si osa sfidare l’ordine stabilito — che sia quello della società, della scienza o di Dio stesso.
La
madre: Mary Wollstonecraft, la “iena in sottoveste”
Quando nel 1792 Mary Wollstonecraft pubblica A Vindication of the Rights of Woman, la società inglese la etichetta come un mostro. Horace Walpole la definisce con disprezzo “una iena in sottoveste”, mentre altri la considerano una donna “innaturale”, colpevole di pensare troppo e di amare male.Eppure, nel suo manifesto, Wollstonecraft chiede qualcosa di semplice e rivoluzionario: che le donne vengano trattate come esseri razionali, capaci di educarsi e di partecipare alla costruzione del mondo. Sfidando il paternalismo illuminista di Rousseau, che voleva la donna “compagna docile e ornamentale”, Wollstonecraft scrive: “È tempo di restituire alle donne la dignità che hanno perduto e di farle, come parte della specie umana, lavorare per riformare se stesse e il mondo.” Muore pochi anni dopo, di febbre puerperale, dieci giorni dopo aver dato alla luce la figlia che porterà il suo nome: Mary Godwin, futura Mary Shelley.Il primo atto simbolico della sua eredità è una morte per creazione: dare la vita le costa la vita.
La
figlia: Mary Shelley, la creatrice del mostro
Vent’anni più tardi, quella figlia cresciuta nell’ombra di una madre mitica e di un padre filosofo anarchico (William Godwin), fugge a 16 anni con il poeta Percy Bysshe Shelley. L’estate del 1816, piovosa, elettrica, quasi apocalittica, la trascorre a Ginevra con Percy, Lord Byron e il medico John Polidori. Da quella convivenza forzata nasce una gara letteraria: chi riuscirà a scrivere la storia più spaventosa? Mary, ventenne, risponde con Frankenstein, o il moderno Prometeo (1818). Un romanzo che parla di creazione, solitudine e colpa, ma anche di genere e potere. Il vero “mostro” non è la creatura, ma lo scienziato: un uomo che osa sostituirsi a Dio, che genera la vita senza amore, e abbandona ciò che ha creato. È difficile non leggere in Frankenstein il riflesso di Mary stessa: una giovane donna che crea nel dolore, e che conosce la potenza ambigua dell’atto creativo: generare può distruggere, e la conoscenza può uccidere.
L’amore,
la morte e l’ombra del genio
La vita di Mary Shelley è una sequenza di lutti che sembrano scritti da un tragediografo ossessionato dal destino: tre figli morti, un aborto che la lascia quasi esanime, il suicidio della sorellastra Fanny, la morte in mare del marito. Si racconta che Mary abbia conservato il cuore di Percy avvolto in un fazzoletto nel suo scrittoio, insieme a ciocche di capelli dei figli perduti. Leggenda o no, è un’immagine perfetta: l’amore romantico trasformato in reliquia anatomica, l’arte come un modo di trattenere i morti. Eppure, dopo tutto questo, Mary sopravvive. Scrive, traduce, cura le opere del marito, ma soprattutto costruisce la propria voce. Nei romanzi successivi, come The Last Man (1826), ambientato in un mondo distrutto da una pestilenza, Mary immagina la fine dell’umanità come forma di memoria personale. È una scrittura della perdita, ma anche della resistenza: la scrittura come modo per rimanere umani quando tutto muore.
Madre
e figlia: due rivoluzioni complementari
Charlotte Gordon, nella sua biografia Romantic Outlaws (2015), racconta la vita di Wollstonecraft e Shelley intrecciandole in capitoli alternati. L’effetto è potente: la madre muore partorendo una figlia che, a sua volta, passerà la vita a interrogarsi sul senso della creazione. La prima rivoluziona il pensiero politico, la seconda lo trasforma in immaginario. Wollstonecraft dice: riforma la mente per liberare la donna. Shelley aggiunge: riforma il mito per comprendere l’umano. Nella loro differenza si compie un’unica rivoluzione: quella del pensiero femminile che si fa materia, corpo, linguaggio, mostro. Entrambe, in modi diversi, pagano il prezzo dell’intelligenza: vengono isolate, derise, patologizzate. Ma è proprio nel loro essere “fuorilegge” che trovano la forza di riscrivere il destino.
Dalla
ragione al gotico: un’eredità viva
Oggi, nel tempo delle intelligenze artificiali e della biotecnologia, Frankenstein è più attuale che mai. Ogni volta che un algoritmo “crea” qualcosa, riecheggia l’eco della domanda di Mary Shelley: cosa significa dare vita senza responsabilità? E ogni volta che una donna viene accusata di eccesso, di ambizione, di parola, di desiderio, risuona la voce di Mary Wollstonecraft, la “iena in sottoveste”. Forse è per questo che queste due figure continuano a tornare: perché parlano di creazione come atto etico e politico, e di solitudine come prezzo della libertà. Sono le vere “figlie di Prometeo”: hanno rubato il fuoco della conoscenza non per dominarlo, ma per illuminarne le conseguenze.
La
scintilla e l’ombra
Quando
Mary Shelley fa dire al suo mostro: “Era buio quando mi sono svegliato.
Avevo freddo e un opprimente senso di solitudine”, sta raccontando molto
più che una storia gotica. Sta parlando della condizione umana, della
maternità, della creazione, della perdita. Sta dando voce a tutte le
creature che nascono nell’ombra e cercano una luce. Mary Wollstonecraft e
Mary Shelley non sono solo due icone letterarie: sono una madre e una
figlia che hanno fatto della parola un atto di sopravvivenza. E, come
tutti i veri Prometeo, hanno pagato il prezzo della loro fiamma.

Commenti
Posta un commento