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Platone e i poeti

Fuori di senno è il poeta: i suoi versi scaturiscono da una privazione  della sua facoltà intellettiva. Egli è fuori di sé perché il dio lo invade, lo possiede e lo spinge oltre i confini della sua soggettività, dell’io cosciente. L'invasione del dio è la ragione per cui i poeti compongono i loro versi, e i rapsodi li recitano al pubblico: un’indefinita e imprevedibile forza divina che irrompe svelandosi come unica autrice. Il dio è il vero artista che usa il poeta e il rapsodo come umani strumenti: il dio si serve di loro, suoi interpreti “entusiasti” ed inconsapevoli, esseri “leggeri, sacri ed alati” che come api attingono presso il boschetto delle Muse le parole del dio, miele divino e seducente, e poi volano di fiore in fiore addolcendo le anime dei greci.
Impietoso è l'esame che Socrate fa nello Ione di Platone a proposito dei poeti, interpreti degli dei presso di noi, depositari della tradizione, e dei rapsodi (interpreti degli interpreti) che  si aggiravano per l'Ellade consolidando e tramandando oralmente i racconti mitologici dei poeti del passato intorno ai quali si costituiva il nucleo dell'identità greca. Impietoso da far sì che lo Ione, nel tempo, sia stato interpretato come un vero e proprio manifesto del razionalismo della scienza contro l'irrazionalità della parola poetica. Questa interpretazione dell'antica cultura poetica non deve stupirci. La tensione intellettuale ed emotiva che è connaturata alla creazione poetica e paragonata ad uno stato di invasamento, di furore divino, di possessione, riproduce credenze antichissime e comuni ad altri ambienti europei e riaffiora ripetutamente di epoca in epoca.
La critica platonica della poesia diventerà aspra polemica nella Repubblica.
 Platone voleva che la poesia fosse bandita dal suo stato ideale per il suo appello agli elementi inferiori della nostra anima e la sua conseguente distruzione della facoltà razionale dell'anima. Gli obiettivi del poeta sono considerati lontani dall'intelligenza e dalla verità e visti invece come associati alla codardia. Nel decimo libro della Repubblica Platone ne criticherà, con particolare riferimento alla poetica omerica, le pretese educative, vedendo in se stesso il rinnovatore di tutto il sistema formativo (paideia) greco. Omero non fu bersaglio polemico solo di Platone: Eraclito voleva addirittura che "fosse cacciato dagli agoni e frustato", mentre Senofonte lo avrebbe processato volentieri per empietà.  Questi giudizi severi su uno dei padri della cultura greca e in generale sui poeti, accusati di cattiva influenza sui pensieri del popolo, è forse più facilmente comprensibile se si considera che, nell'antica Grecia, da Omero si era soliti attingere da tutti i campi del sapere come più tardi i cristiani attingeranno dalla Bibbia. La parola poetica aveva quindi un valore normativo al punto che gli oratori nei tribunali citavano i "detti dei poeti" accanto alle norme codificate del diritto. Lo stesso Pericle nel suo elogio alla democrazia esaltava "la legge non scritta codificata dai poeti". Il poeta, detentore della parola ritmata e cantata, era portatore di una verità sacra che poteva anche assumere un valore etico-normativo, mostrando dei modelli di comportamento non solo per il sovrano e per l'aristocrazia. Il poeta era il preservatore della tradizione ma anche del diritto consuetudinario e dell'ideologia che sosteneva la struttura sociale.
Credeva veramente Platone, colui che teorizzava "la fantasia al potere", che la cultura poetica non avesse titolo per assumere nella città un ruolo normativo e pedagogico perché alle sue spalle non v’era nessun sapere e dunque nessuna capacità di insegnare?
Scrive H.G.Gadamer, tra i più lucidi interpreti di Platone nel XX secolo, nel saggio Platone e i poeti: "Non c’è stato nessun altro filosofo che abbia negato così radicalmente all’arte la sua importanza e ne abbia contestato con assolutezza la pretesa, per noi così ovvia, di essere la rivelazione della verità più profonda e segreta”. Ma lo stesso Gadamer sottolinea, subito dopo, la natura paradossale di questo attacco quasi ad invitarci ad una considerazione più attenta dei rapporti tra Platone e la poesia. Gadamer scrive: "Tale attacco, infatti, non è opera di un razionalista privo di senso artistico, ma di un uomo la cui stessa opera si alimenta a energie poetiche, evoca incanti poetici, affascinando così i millenni".
E infatti se mettiamo da parte il requisito che la poesia debba essere scritta in metri, Platone è uno dei poeti supremi del mondo così come della Grecia ; ha un posto con Omero, Eschilo e Dante. La sua filosofia ricca di allegoria, narrazioni mitologiche, dialoghi di fantasia, miti e metafore ha affascinato i millenni così come la  passione entusiastica investe i poeti, chi recita i versi e chi l'ascolta determinando un contagio emotivo, una catena empatica. Per spiegare questo circolo di contagi emotivi lo stesso Platone nello Ione usa la metafora della "pietra di Eraclea", il magnete che attira a sé e rende più forti: "Questa pietra non solo attira gli anelli di ferro, ma infonde altresì una forza negli anelli medesimi, dando luogo in tal modo ad una lunga catena di anelli che pendono l’uno dall'altro, la Musa rende i poeti ispirati, e attraverso questi ispirati, si forma una lunga catena di altri che sono invasati dal dio".


















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